Renzo Andrich intervista Litzy, Fabio ed Elena Recalcati (Milano) >> VIDEO
Renzo. Litzy e Fabio Recalcati, da Milano, in Italia, assieme ad Elena, una dei vostri quattro figli: grazie per essere qui con noi. Ci raccontate qualcosa, in breve, della vostra storia?
Litzy. Grazie a voi! Siamo molto contenti di essere con voi. Io sono Litzy (62 anni), qua con me c’è Fabio (67) e c’è Elena (quasi 22). Siamo sposati ad 35 anni, siamo già nonni e i nostri tre figli più grandi sono già fuori casa mentre Elena vive ancora con noi. Quando abbiamo cominciato ad aspettarla non sapevamo che era Down. Abbiamo vissuto nove mesi di una gravidanza normalissima, peccato che ci siano state complicanze durante il parto, per cui da subito abbiamo temuto forte per lei e la sua salute perché c’è stato un mese di ricovero, ci sono state cure, c’è stato qualche problema e temevamo che oltre alla trisomia ci fossero danni permanenti neurologici. Invece lei ha superato brillantemente tutto, ha svolto le sue scuole, è arrivata fino alla maturità del liceo artistico e adesso si prepara ad entrare nel mondo lavorativo. Sicuramente a questa sfida, a questo scossone forte che è stata la disabilità che è entrata nella nostra famiglia, abbiamo potuto, come dire, far fronte grazie anche all’aiuto degli amici che avevamo intorno, delle famiglie che avevo intorno, e anche maturando nell’esperienza del Movimento dei Focolari. Da subito ci siamo resi conto che non ce la facevamo da soli, e che quindi avevamo bisogno di tanti aiuti specifici, di tante possibilità di sostegno che non sono mai mancate, sia come aiuti concreti che come sostegno psicologico.
Renzo. Quando si parla di accessibilità la gente tende a pensare solo a quelle “cose architettoniche” che riguardano le persone che hanno una disabilità di tipo motorio o visivo o uditivo e non ci si rende conto che forse esistono anche delle barriere che escludono persone che hanno problematiche di tipo intellettivo o relazionale. Nella vostra esperienza avete sperimentato qualche barriera di questo tipo?
Fabio. Provo a rispondere io. Sì, in effetti è così. Elena non ha avuto grossi problemi legati all’aspetto motorio però sicuramente esistono certi problemi tipo intellettivo. La cosa che abbiamo notato fin da subito è questa: che la persona disabile viene di solito inquadrata in una specie di “recinto” nella quale viene definita, vengono definite a priori le sue potenzialità: “questo lo potrà fare, quello non lo potrà fare…” C’è anche uno stereotipo collegato a questo: per esempio per i Down si dice che sono persone che hanno una particolare propensione verso la musica, sono particolarmente legati affettivamente, sono molto affettuosi, tutte queste cose in realtà non sono vere, perché una persona che ha una disabilità, qualsiasi essa sia, è presto una persona unica, con i suoi lati positivi e i suoi lati negativi cioè i suoi limiti; questa tra l’altro è una condizione di disabilità che va vista anche in quello che riguarda ognuno di noi: ognuno di noi passa durante la vita attraverso una fase di disabilità, di fragilità se non altro perché diventa anziano. Quindi, ecco, questo “positivo” e “negativo” è tipico di qualsiasi persona in qualsiasi età della vita. Questo sguardo, questa maniera di vedere la persona disabile, è stato il limite che noi abbiamo visto da subito nelle altre persone.
Renzo. Le barriere, quindi, sono stereotipi e pregiudizi.
Fabio. Stereotipi e pregiudizi. Naturalmente bisogna tener presente anche il rischio opposto: quello che si veda ogni persona come capace di tutto. Invece in realtà i limiti ci sono. Per ognuno però. Sono diversificati: questo è un dato fondamentale. Certo, davanti a queste cose noi ci siamo anche tante volte, come dire, spaventati, no? Come le affrontiamo queste cose? Affrontare le cose nell’attimo presente: questa è stata un po’ la chiave per superare queste difficoltà.
Renzo. È molto importante quello che dite: c’è qualche messaggio che vi sta a cuore, che vi piacerebbe trasmetterci per aiutarci reciprocamente a costruire una società più inclusiva? Cosa dobbiamo fare?
Litzy. L’esperienza di 22 anni con Elena è stata molto positiva nel farci capire che da soli non potevamo fare le cose. Quindi il messaggio importante per noi è fare squadra, lavorare ognuno con le proprie competenze specifiche, con le proprie possibilità, e soprattutto con una grande disponibilità all’ascolto di quello che l’altro ti può offrire: un punto di vista diverso, un aiuto, un sostegno. Da soli veramente non ce la si fa. Questo è stato anche così paradigmatico nell’esperienza del BASKIN, come magari ci potrà raccontare Elena. Perché quando abbiamo visto la prima partita di questo sport così inclusivo abbiamo pensato che poteva essere il bozzetto di una società più inclusiva.
Renzo. Hai nominato uno sport che probabilmente pochi conoscono ancora: il BASKIN. Elena, ci vuoi dire che cos’è?
Elena. Certo. Il BASKIN è più o meno come un basket normale perché infatti ci sono due canestri tradizionali. Poi ci sono altri canestri più o meno al centro campo, perché in realtà sono nell’area dei pivot, in cui i pivot nel ruolo uno e nel ruolo due possono fare il canestro dal canestro più alto. Invece gli altri che sono in carrozzina fanno più fatica ma con altri nostri amici che fanno più fatica sul piano motorio e quindi fanno canestro dal canestro più basso.
Renzo. Ho capito: quindi è un basket, però riprogettato in modo che le persone possano giocare con le loro diverse abilità sportive. Grazie, grazie tantissimo per essere stati con noi!